Da studente una delle mie materie preferite era Storia, in particolare mi affascinava quel glorioso periodo definito “Risorgimento”. Come non rimanere colpiti dalle gesta eroiche dei numerosi patrioti, dalle imprese del Generale Garibaldi, dalla vittoriosa strategia di Cavour, dalla magnanimità di Vittorio Emanuele II che si era messo a capo di una crociata destinata ad unificare l’Italia liberandola dalla tirannica dominazione straniera?

Anche se mi sono diplomato in ragioneria e ho conseguito poi due lauree in discipline economiche, la mia passione per la Storia negli anni non è diminuita.

Iniziando a leggere i libri dello storico inglese Mack Smith mi sono accorto però che quanto appreso sui banchi di scuola corrispondeva ben poco al vero, che la storia ufficiale italiana era stata scritta in modo diverso dalla verità. Da allora ho rivolto la mia attenzione alle numerose opere di revisione di quel periodo, che ne hanno infranto la vulgata ufficiale, documentato gli intrighi, le violenze, la corruzione, i furti ed i massacri.


Un Risorgimento di falsità. La storia è ben diversa!

Come rilevò Mack Smith: “Nei trent’anni successivi al 1861 furono stampate decine di poderosi volumi e migliaia di documenti contenenti inesattezze, ritocchi superficiali, omissioni di nomi, l’aggiunta di intere frasi, la cancellazione di osservazioni non patriottiche”.

Nonostante nel corso degli anni il riesame del Risorgimento sia proseguito ed abbia portato alla luce montagne di errori e falsità, quel periodo rimane uno dei più intoccabili, protetto da una sorta di “Congregazione per la dottrina della fede risorgimentale”.

Ne abbiamo avuto la dimostrazione in occasione del 150° anniversario della proclamazione del Regno d’Italia: una lunghissima serie di costose ed inutili cerimonie, sterili convegni, una martellante propaganda patriottica, una mistificazione della storia attraverso silenzi, reticenze e la ripetizione delle solite bugie.

Lodare il Risorgimento è una “missione” che ha visto e vede attivamente impegnati politici di destra, di centro, di sinistra, prefetti, generali, direttori di musei, degli archivi, eminenze, imprenditori, affaristi vari, economisti, insegnanti, giornalisti, comici …

Se tale minoranza di individui, può svolgere tranquillamente quest’opera di glorificazione lo si deve innanzitutto alla conoscenza meramente scolastica della storia da parte della stragrande maggioranza della gente. La battuta di Longanesi “Tutto quello che non so l’ho imparato a scuola” calza perfettamente. Purtroppo, anche le menzogne più grossolane diventano così verità quando coloro che dovrebbero favorire un’adeguata comprensione delle vicende storiche se ne guardano bene dal farlo. Come è stato, infatti, osservato moltissimi storici, professori della materia, giornalisti, figure autorevoli, non sono altro che modesti burocrati della cultura ufficiale, propagatori delle banalità di regime, custodi della tranquillità di un repertorio confezionato per tenere in piedi una bottega che si autoreferenzia.

Anche in ambito locale la situazione non è diversa. Chi volesse conoscere la verità su questo periodo specifico della storia piacentina si imbatterebbe sempre nelle stesse mistificazioni, omissioni, deformazioni, nella stessa chiave di lettura: il popolo piacentino non voleva più essere “calpesto e deriso”, governato dalla dispotica dinastia borbonica, ma bramava di diventare finalmente suddito del “Re Galantuomo”. I risultati scaturiti dai plebisciti del 1848, del 1859 e 1860 vengono presi come una prova incontrovertibile del consenso dei piacentini di diventare sudditi di Casa Savoia e non si perde quasi mai l’occasione per glorificare il primato di Piacenza nel cammino verso l’Unità, ricompensato da Carlo Alberto con il titolo di “Primogenita”.

Nessuna meraviglia se per quasi tutto il 2011, nobiluomini con un antenato nel clero risorgimentale o nella Società Nazionale, professori con o senza cattedra, presidenti di associazioni o comitati vari, superpagati parlamentari in attività od a riposo, sindaci, assessori, eccellenze, eminenze, dirigenti degli archivi, dei musei, delle biblioteche, militari, giornalisti, erano tutti lì allineati a raccontarci che il Risorgimento è stato bellissimo, purissimo, un processo, anche qui nella provincia piacentina, senza opposizione interna.

Inutile tentare di ricordare a tutti questi eruditi che l’80% della popolazione piacentina viveva in un regime di apartheid culturale poiché non sapeva leggere e scrivere, non era stata politicizzata, non partecipava alle lotte politiche ed era fortemente separata dalla minoranza acculturata. In città, senz’altro, gli artigiani e gli operai potevano essere stati raggiunti dalla propaganda della Società Nazionale (i cui iscritti appartenevano soprattutto alle classi colte e professionali) ma per i più poveri, presi come erano dalla miseria, le questioni “di pancia” erano più interessanti di quelle patriottiche. Anche la provincia di Piacenza era un’area profondamente agricola dove i “possidenti”, che rappresentavano la classe economicamente più potente nel Ducato, ambivano a “risorgere” cioè ad annettersi al Piemonte poiché questo avrebbe significato la libertà del commercio, un ampliamento dei mercati e quindi maggiori profitti. All’opposto i contadini erano i più accesi e validi sostenitori del regime ducale. Negli anni, i coloni della pianura e della bassa collina erano stati costretti ad assistere, impotenti, alla diffusione sempre più estesa della grande affittanza che aveva finito per penalizzarli, proletarizzarli, col ridurli al rango di salariati. L’unica loro preoccupazione era quella di trovare un lavoro, magari anche emigrando, per poter vivere. Lavorando 6 giorni su 7, dall’alba al tramonto, i contadini si disinteressavano di tutto quello che avveniva fuori del podere; erano una “maggioranza silenziosa” senza il tempo, la voglia, la capacità di coltivare gli ideali patriottici. Con i ¾ della popolazione che svolgeva un’attività agricola alle dipendenze di affittuari, mezzadri e proprietari terrieri è evidente che i risultati dei plebisciti di annessione al Piemonte fossero scontati. Nessuna meraviglia perciò se una massa di “elettori per un giorno”, legata alla terra da contratti capestro, dovette accettare le direttive dei propri “padroni” depositando nell’urna la scheda di annessione per non subire gravi conseguenze. Basti pensare che in alcuni comuni della pianura piacentina come, per esempio, Castel San Giovani, Calendasco, Rottofreno, Sarmato, nessuno si pronunciò per il Regno Separato!

Proprio in merito al plebiscito d’annessione dell’11 e 12 marzo 1860 va osservato che, in un secolo e mezzo, nessuno prima del sottoscritto si era affaticato di cercare quantomeno i dati ufficiali riepilogativi della provincia piacentina preferendo, invece, riprendere quelli provvisori riportati sulla Gazzetta dell’epoca. Figuriamoci poi se si potevano sollevare dubbi sulle modalità di organizzazione e svolgimento di questa consultazione!

Nel patriottico libro “I Garibaldini della Primogenita” quando si tratta del plebiscito, a pag. 302, viene ricordato che ”in città gli iscritti alle liste elettorali erano 7670, i voti espressi per l’annessione furono 7296, quelli per il regno separato 6 ed i voti nulli 24. Ci sono sempre state critiche, anche ironiche, sul regolare svolgimento di questa votazione”. Inutile cercare anche nelle pagine di questo volume una qualunque notizia riguardo alle pressioni sui votanti, alla scorrettezza di aver fatto stampare o distribuire solo le schede per l’annessione.

Anche i fenomeni della renitenza e diserzione non hanno trovato in ambito locale degna attenzione.

Quando se ne parla, nel migliore dei casi, i renitenti ed i disertori sono stati etichettati come un gruppuscolo di bigotti sobillati dal clero oscurantista, di retrogradi difensori dell’ancien régime .

A dire il vero in alcune pagine del citato libro si accenna al fenomeno della diserzione in alta Val d’Arda, ma anche in quest’opera mancano però gli elenchi dei nomi dei giovani di quella zona che non ne volevano sapere di essere arruolati nelle truppe del nuovo esercito.

Interrogando la banca dati dei “combattenti piacentini per l’unità” realizzata dall’Archivio di Stato di Piacenza, sarebbe interessante sapere quanti di quei ragazzi entrati nell’esercito piemontese/italiano fossero animati da spirito patriottico. Infatti, pur non assumendo l’intensità e la durata di ciò che accadrà poi nel Meridione, anche nel territorio piacentino (come si era già verificato all’arrivo delle armate napoleoniche ed accadrà nel 1943 – 1945 con i nazisti) furono in tanti ad opporsi “all’invasore” piemontese. Se si fossero fatte le opportune ricerche ci si sarebbe accorti che molti di quei nomi si ritrovano prima di tutto negli elenchi dei disertori delle ex truppe ducali e dei renitenti.

Io non sono mai stato iscritto ad associazioni patriottiche o antirisorgimentali o, peggio, a partiti politici. Non ho neppure una sinecura da difendere.

Ho rifiutato anche la collaborazione con alcune riviste perché preferisco rimanere libero, per poter così giudicare con occhio più equilibrato e rigoroso. Nei miei libri ho cercato di controbilanciare una storiografia incurante della “altra parte”, cioè dei “vinti”, di portare, grazie anche a documenti inediti, un contributo nuovo alla conoscenza di quel periodo. Spero, che i miei lavori possano rappresentare una base di partenza per chi, nel rispetto della verità, vorrà in futuro, approfondire aspetti ancora poco conosciuti della storia piacentina.


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